“Felice chi, lasciatisi alle spalle gli affanni e i dolori che pesano con il loro carico sulla nebbiosa esistenza, può con ala vigorosa slanciarsi verso i campi luminosi e sereni”
L’intento è buono, la musica che ci accompagna in aeroporto anche; la città degli gnomi, dei vichinghi, delle lunghe notti in inverno e dagli infiniti giorni in estate. La pensavo da un po’, questa volta ho la scusa buona per andare: l’amore.
Stoccolma *
Atterriamo, la strada che porta in città è lunga, intorno è nero, un nero rotto solo dalla luce chiara che esce dai palazzi a vetro che morbidi e quieti si riflettono nella baia.
I rigagnoli d’acqua che si infilano tra le isolette che compongono la città sono completamente ghiacciati in superficie. Le anatre, nel fiume centrale, nuotano.
Il bus dall’aeroporto ci lascia in stazione. A Federica serve un bagno, io cerco un bancomat: troviamo un SevenEleven. Un SevenEleven, In Svezia. Fa strano, sono abituato a vederlo tra le strade delle cittadine dei tropici; porta bei ricordi, sorrido.
Lasciamo la stazione per provare a cercare la via dell’ostello, fa davvero freddo. Fermo un ragazzo, mi manda a sinistra. Non mi sembrava molto convinto, quindi dopo trecento metri ne fermo un’altro.
Non parla bene inglese e questo sembra renderlo rigido, vorrebbe me ne andassi in fretta. Nel liquidarmi usa un paio di parole spagnole, rispondo nella sua lingua. Si rilassa. È colombiano e sta qui solo da qualche mese, tra un po’ lo raggiungerà anche la famiglia e mi da, infine, una dritta della quale non mi fiderò: “questa strada non credo sia in questa zona.
“Continuo a camminare e a fermare persone, ho una cartina, ostello e stazione ce li ho cerchiati sopra, Stoccolma è piccola, devo dormire in un battello ancorato al porto e nessuno sa dirmi dove diavolo potrei trovarlo?! Ti guardano come se gli stessi chiedendo informazioni su Oslo.
È vero che sulla cartina ci sono scritti solo i nomi delle vie maggiori, ma questo può essere un problema per me; chi ci abita, sapendo dove siamo, dovrebbe poter sapere almeno indicare in che direzione uno deve andare, no? No. Fermo un signore che lavora sugli autobus:
Scusi, sa dirmi dov’è questo ostello? Prendo la cartina. Noi più o meno siamo qui, l’ostello è questo, in che direzione devo andare?
Guardi, forse… aspetti, credo che a destra potrebbe… la rotatoria, li. Quella strada.
No signore, vede? Quella strada ha un’altro nome. C’è il cartello.
Ah, allora credo.. aspetti. Non saprei, sinistra?
(Davvero lo sta chiedendo a me? Io, italiano a Stoccolma fermo uno svedese che lavora sui mezzi per un’indicazione e lui chiede a me se è a sinistra?) Lo guardo perplesso, se ne accorge.
Se lei va dritto, oppure torna indietro, forse li, in quella direzio… SIGNO’, LASCIA PERDE, PIO ER TAXI!
E prendo il taxi. Neanche tre km, 142 Corone. Di tutti, l’unico che me l’aveva raccontata giusta era il colombiano.
L’hotel è un battello, quindi io questa notte dormirò in un battello ormeggiato nel baltico, con zero gradi fuori e abbracciato a Federica. Poi dicono che la vita non è bella.
Ci svegliamo, facciamo colazione guardando dall’oblò lo Stockholms stadshus spuntare dalla parte più orientale della baia del lago Mälaren e poi usciamo a passeggiare. Ho il tuo cappello Gì, non scalda niente… pace. Insieme all’infinita ansia che mi crea chiedendomi in continuazione se sono felice mi ha chiesto anche di portargli il cappello in Svezia. Si può deludere un fratello? Fatto!

È anche la festa del papà, e io come spesso mi capita nelle ricorrenze sono in giro per il mondo, lontano da casa.
Casa.
Mai come ora che sono cosi vicino al cambiarla ho avuto la percezione, chiara, di quanto effettivamente Casa sia il cuore. A volte l’ho pensata su una spiaggia, altre in un ritmo di qualche città che magari più giusto poteva sembrarmi… È facile confondersi di fronte al mondo quando vieni da un puntino come Villanova. Ma mai, MAI, è stato. Casa è sempre stata, in ogni attimo della mia vita, la famiglia.
Facciamo per tornare. Nevica. Gioia.
La cosa che mi fa più effetto è il sentire che, d’improvviso, mi abbia abbandonato la frenesia dell’andare. Strano a dirlo con in mano un biglietto per Berlino ma cosi è.
Di certo ho capito che non è il benessere, non è la sicurezza economica, non è una bella donna, non sono neanche molte donne, non è il Messico, non sono i 280.742 km percorsi per 128 città di 35 paesi indicati nella mappa di Tripadvisor, non sono i panorami; non è quante cose hai, non è quante cose fai e probabilmente non è neanche con chi le fai perché in fondo non è importante neanche quanto, come o chi ti voglia bene. L’importante è trovare pace. A prescindere da tutto, a prescindere da tutti.
E questo, appunto, me lo rende chiaro la facilità con la quale ora io riesco a restare, senza null’altro desiderare. E lo stare, per me, è sempre stata la cosa più difficile da fare. Mentre ora sto! Qui, felice e in pace. Finalmente.
Berlino *
Comunque Berlino è meravigliosa, imponente, muscolosa, sofisticata. Particolare e sorprendente è il vedere quanta memoria comunista ci sia in giro… i negozi, le bancarelle, le scritte sui muri vendono e ricordano abiti, oggetti e gesti della resistenza russa.
Camminiamo tantissimo, abbiamo poco tempo e un sacco di voglia di vedere. La cosa che più mi colpisce, oltre alla magnificenza della porta di Brandeburgo, è la quantità e la bellezza dei teatri che ci sono.
Spesso penso al nostro popolo come a un popolo di ignoranti perché ha smesso di ricercare, perché ha lasciato andare l’importanza della cultura. Solo che fino ad oggi ho sempre dato la colpa allo spettatore, pigro e svogliato, che preferiva la TV all’impegno di andare a partecipare ad un qualcosa. E questo resta vero, ma allo stesso modo deve esser vera anche la colpa di chi spettacolo lo fa.
Qui i teatri sono stracolmi di pubblico ed esattamente come è vero che molto pubblico consente lo sviluppo dell’arte tramite il finanziamento, in ugual modo è vero che un alto livello di arte chiama a se molto pubblico.
Quindi si, è vero che noi andiamo poco a teatro, ma è vero anche che spessissimo le compagnie offrono spettacoli di basso livello. Si è abbandonata l’idea di rivoluzione che all’arte per natura dovrebbe appartenere, la novità.
Un artista è colui che, per passione, traduce in gesti, o in suoni, un qualcosa che dall’intimo a gran voce gli grida di uscire; chi si accontenta di esprimersi nelle forme e nei modi in cui è più garantito un guadagno è soltanto un commerciante. E noi, in Italia, di commercianti ne siamo ricchi.
E allora mi chiedo: se noi ci allontaniamo dalla complessità dell’arte e gli artisti, per puntare al guadagno, smettono di proporcela; se ci è soffocata l’espressione più naturale dell’io e la ricerca interna che poi quell’espressione comporta, sia dell’io di chi la produce che dell’io di chi in quella si analizza; se i quadri diventano foto, se la scultura si riduce ai posaceneri, se la letteratura si traduce in tweet, se la musica si accontenta di ritornelli estivi, allora, siamo sicuri che lo sviluppo ci stia dando più di quanto ci stia togliendo?
Il benessere di una società si dovrebbe misurare dallo spazio che essa dedica a cose che, materialmente, non servono per sopravvivere.
Più una società sta bene, più ha spazio per dar da mangiare, oltre che al corpo, all’anima. Più si sta bene più si fa forte la volontà e il desiderio di aggiungere alla quotidianità quel qualcosa che ti faccia passare dal sopravvivere al vivere. Se non si hanno più né tempo, né desiderio, di sentirsi fiorire attraverso la ricerca, l’arte o la magia, possiamo davvero pensare di essere in una fase di sviluppo? Mah.
Volevo una foto al muro. Non è venuta. Ho anche provato a scattarne un paio. Nichts.
Erano anni che pensavo di venire a Berlino perché ti pare che uno ha girato il mondo e non ha una foto sotto il Muro? E niente, non ce l’ho.
Anche perché, sinceramente, come te la fai una foto sotto una cosa simile?
Ridi? Che ti ridi. Piangi? che ti piangi. La dovresti costruire, cosi come la si dovrebbe costruire in una zona di guerra o in un cimitero. E di costruire non ne ho avuto voglia. Certe cose, probabilmente, si fotografano cosi, sole. Senza aggiungerci il nostro volto idiota di turisti curiosi e spesso sciacalli.
Quello che però davvero non capisco è il come possiamo, avendo una cicatrice del genere piantata nel cuore dell’Europa, dimenticarci cosi spesso di quanto sia stupido e doloroso separare. Una lezione del genere dovrebbe restare marchiata a fuoco nelle coscienze proprio come il muro è rimasto li, appunto cicatrice, al centro del petto del nostro continente.
Cosi, alla fine, senza est e senza ovest, esattamente al centro, nella terra di nessuno, tra il muro e la vita, tra la vita e il muro, io e il monumento alla memoria.
E la cosa più triste è che noi, nonostante le giornate che le dedichiamo, l’unica memoria della quale ci interessiamo è quella che riguarda gli smartphone.

Ritorno a casa *
Torniamo a casa. Io esco e mi fermo su un muretto, gli occhi sul tempio della Sibilla e sulla collina di Villa Gregoriana. Leggo:
“Ho attraversato molti luoghi, cambiando più paesi che scarpe”
Proprio come lo leggo lo scrivo, ed è vero, anche perché le mie poi son quasi sempre quelle: di tela, basse. E allora, magari, non è lo sceglier bene, il preferire, ma semplicemente quel che si è a portarci dove DOBBIAMO. Deve essere per forza cosi, e probabilmente è un qualcosa di molto più logico di quanto io possa riuscire a spiegare. Finisce cosi, d’improvviso se sei distratto, da sempre se guardi con attenzione, che la vita ti mette intorno quel che sei. Niente di più, niente di meno.
E allora si, c’è da felicitarsi con sé quando ci appare meraviglioso, cosi come c’è da trovare in noi la chiave del cambiamento quando invece gira male.
Senza cercare fuori, senza dar colpa ad altro, ad altri. Siamo noi quel che ci circonda. Perché assurdo è pensare che il noi che siamo possa terminare dove arrivano le braccia; sarebbe molto più corretto pensare che siamo quello che riusciamo a sentire, il fin dove siamo in grado di vedere.
Cosi dev’essere.
Perché non può essere né fortuna né caso che io sia finito a vivere qui.
Ogni suono una musica, ogni scorcio un quadro. Mille lingue, mille volti. E la mattina dopo altre mille lingue, altri mille volti, ma insieme al solito, a quel che sa di casa e di famiglia. Si vendono le uova fresche, il pane fatto in casa, agli angoli dei vicoli banchetti di miele.
Mutamento e stabilità. Radici e memoria che, proprio perché salde, non devono temere la fusione col mondo.
E io posso star qui, seduto a guardare, a sentire, tra cascate e vento, tra musica e arte, quanto è bello quel che sono diventato se quel che sono diventato mi ha portato qui, immerso nella meraviglia.
Galleggio. Felice. Si Luí, sono davvero felice!
” Avevi ragione tu, la vita va presa così: per essere felici!”
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