“Da oriente viene Sarajevo, dalle pallide terre dell’aurora, dai precipizi li dove spumeggia la Milijacka selvaggia giù da Pale. È quello il cuore antico e si rinserra con il castello e il mercato alle rocce da dove arriva il sole e non soltanto. Da quella direzione benedetta venne nei secoli anche la fede… fosse cristiana, ebraica o musulmana. Ma poi tutto cambiò, straniero, da quella parte venne solo la morte, data da quelli che in nome di Dio avrebbero voluto dividere persino il cielo sconfinato dell’altissimo.”

 

La Bosnia, per lo meno dalla parte dalla quale arrivo io, accoglie con un freddo gelido, foreste vastissime, la visione incantevole di un lago dal colore dell’azzurro del ghiaccio incastrato tra le Alpi Dinariche, distese di terreni disseminati di pascoli liberi e cimiteri. Rocce bianche, colline, montagne, abeti, nuvole dense, forti, dalle mille sfumature di grigio, qualche casupola dal tetto a punta e una strada tutta curve, stretta, proprio nel mezzo a tagliare il tutto esattamente a metà.
La pioggia riga i vetri del bus, il cielo è basso; sembra di poter toccare le nuvole!

Proprio mentre ci troviamo a sorridere del fatto che siamo gli unici due “stranieri” sull’autobus, il nostro vicino ci chiede di dove siamo. Si chiama Nihad, musulmano di Sarajevo, e vive da quasi trent’anni a Roma.
Chiacchieriamo un po’, e arrivati alla fermata di Bugojno, ci chiede se vogliamo qualcosa da bere: accettiamo.
Entriamo nel caffè, ci mettiamo seduti e lui si accende una Marlboro rossa. La ragazza che da sola si divide tra il servizio ai tavoli ed il bancone ha i baffi.

I tavoli sono di marmo, vecchi, le sedie di ferro, il bancone è lungo, rosso e blu, con gli scaffali in vetro per lo più vuoti, con a riempirli, qui e la, solitarie bottiglie di whisky Ballantines.

In un angolo in alto una vecchia TV, color grigio, di quelle col tubo catodico, ora spenta, quasi dimenticata, che però io immagino raccontare gracchiante bollettini di guerra ai passanti degli anni ’90.
Prendiamo tre caffè, Nihad e altri signori nel frattempo fumano.

Normalmente ne sarei infastidito, ma qui, il fumo, contribuisce a colorare l’aria spenta e a creare quell’odore meraviglioso che appartiene ai bar delle stazioni ormai dimenticate e praticate solo da chi è costretto a passarci. Sempre meno persone in verità, solo quelli che ci abitano, dato che per la tratta Spalato – Sarajevo hanno aperto una strada che passando per Mostar ci mette la metà del tempo.

Qui passa chi va piano, per i monti. Qui passa quella vita lenta, graffiante, che ti si attacca addosso e alla gola. Proprio come il fumo delle sigarette.
Mentre prendiamo il caffè parliamo un po’, infine gli chiedo della guerra… sembra restare imperturbabile, ma il suo sorriso si restringe un pochino e gli cambia la luce negli occhi.

Riconosco quella malinconia amara, tipica dei Balcani. Mi dice poco, ma molto: “abbiamo sempre vissuto tutti insieme, poi una guerra inventate, finta. Sospira… I potenti le inventano sempre. Ma ora siamo tornati vicini, è come prima.” Ma non lo dice come fosse una vittoria. Stare vicini, insieme, per loro è la normalità; c’è solo infinito dolore per il massacro che c’è stato in mezzo.

Sarajevo è un colpo al cuore. Sospesa nel tempo, per magnetismo il punto di fusione esatto tra occidente e oriente. Qui, cielo e terra si toccano!
Caffè turco servito in tazzine viennesi. Austro-ungarici e ottomani. Cristiani e musulmani. Bianchi e neri. Probabilmente solo qui, l’incubo di una guerra di razza ancora fresco, può non essere in grado di scalfire il desiderio di uguaglianza. Un diamante tra i Balcani, una meraviglia straordinaria. La pancia del mondo.
Federica rimane un po’ colpita dalle donne con il burqa, è la prima volta per lei in un paese fortemente musulmano, quindi passiamo la giornata fra la gente, perdendoci tra i caffè, i bazar e le botteghe di artigianato.

Sarajevo

Il risveglio ci regala una mattina bosniaca con un profumo meraviglioso e la convinzione, sempre più forte, che questo sia l’incrocio del mondo, che qui si intreccino le civiltà.

La città è piena di cimiteri aperti. Ci sono tombe ovunque, in ogni angolo, in ogni parco.

Mi guardo intorno ed in sequenza, tra le vie della città, le macchine, bambini che giocano, tombe, poi un tram, poi ancora tombe. I cimiteri sono ovunque, come da noi le fontane. E non capisco. Non capisco se sono qui perché migliaia di morti fatti da una guerra infame da qualche parte devi pur seppellirli o se sono ovunque perché, per chi ha vissuto un incubo del genere, è semplice capire che la morte è parte della vita e quindi nulla di strano vedono in un bimbo che con la palla gioca tra le lapidi.

Magari son vere entrambe, comunque è incredibile quanto, qui, sia forte l’impatto con la morte, e ancor più incredibile è che sia forte tanto quanto quello con la vita. Ma è probabile sia sempre così, c’è più vita proprio dove c’è stata più morte.

E a Sarajevo, mi dice un ragazzo, non c’è famiglia senza morti.

Palazzi crivellati dai colpi. Ovunque. Le rose, a Sarajevo, non sono fiori come per tutti noi, ma sono le tracce rosse marchiate a terra che indicano l’esplosione di una cannonata.
Qui di fianco passa l’Ulica Zmaja od Bosne, la famosa via dove i cecchini, sparando dalle montagne, cercavano di uccidere gli abitanti della città. Il miglior auspicio per la loro follia era quella di colpire il maggior numero possibile di bambini, perché una persona adulta ferita sarebbe stata “abbandonata” al fuoco, mentre un bambino doveva esser salvato. Quindi colpendo un bambino avrebbero poi potuto colpire anche tutti quelli che tentavano di andarlo a salvare.

A chi ancora stupidamente sostiene l’ideologia della razza quello che voglio dire è questo: nel caso di una guerra, potreste essere voi quelli che devono sparare al bambino per attirare i grandi, e potreste essere anche i genitori del bambino colpito costretti, per cercare di salvare vostro figlio, ad uscire allo scoperto sotto il fuoco dei cecchini. Pensatela cosi una guerra di razza.

Le pareti dei palazzi sono crivellate di colpi non perché i cecchini non sapessero sparare a terra, tra la gente, ma perché sparavano direttamente alle finestre. Nelle case.

Chiunque di noi, quando ha paura di qualcosa, o passa un momento difficile, pensa automaticamente di rifugiarsi nel calore della propria abitazione. Ma dove fuggi se il terrore te lo portano fin dentro casa? Non fuggi, disperi.

Sembra una cosa banale da capire, anche per gli stupidi che ancora inneggiano all’odio razziale, ma di cose banali da capire per gli stupidi non ce ne sono, altrimenti stupidi non sarebbero.

Sarajevo

Dopo esserci arrampicati per le vie della parte montuosa della città, per cercare di avere una visione totale e distaccata di quello che Sarajevo è, finiamo la serata in un localino che si chiama Dzirlo, e li conosciamo il proprietario, Hussein. Indossa un sarong bianco, bianchi sono anche i capelli, lunghissimi, e la barba.

Ha uno sguardo vasto e la voce profonda, decisa, proprio come la sua stretta di mano.

Accoglie e serve lui i clienti, uno per uno, dedicando ad ognuno tempo per le presentazioni personali e per qualche minuto di chiacchierata. Porta un orologio meraviglioso, che poi mi racconta fosse stato per sessant’anni sul braccio del padre, prima di starne ventidue chiuso in una cassetta per poi finire li dov’è ora, sul suo polso.

Ci offre un bicchiere di Salep, un misto di latte bianco caldo, cannella e orchidea selvatica, poi prendiamo un tea. Stiamo molto tempo e con il calare della sera si fa parecchio fresco, quindi ci porta anche due copertine per coprirci. Parliamo un po’ con lui.

“guarda ancora, Sarajevo è cresciuta soltanto verso ovest, direzione non chiusa dalle montagne e per questo chi prende quella strada viaggia nel tempo anche se non lo sa.”

Camminando sulla riva destra della Miliatcka, incontriamo un maestoso edificio in stile moresco che scopriamo essere la biblioteca nazionale che, tra l’altro, è da poco stata restaurata. Di fuori, le mura, restano anche buffe con l’alternarsi orizzontale del giallo e del rosso che la colorano, ma di fronte all’entrata, una targa mi fa subito serio:

IN QUESTO PORTO CRIMINALI SERBI, NELLA NOTTE TRA IL 25 E IL 26 AGOSTO DEL 1992, DIEDERO ALLE FIAMME LA BIBLIOTECA NAZIONALE DELLA BOSNIA ED ERZEGOVINA.
PIÚ DI 2 MILIONI DI LIBRI, PERIODICI E DOCUMENTI BRUCIARONO NELLE FIAMME.

DON’T FORGET, REMEMBER AND WARN!

Niente odio, niente rabbia, solo memoria.

All’interno una struttura di straordinaria meraviglia: gialli, azzurri, bordeaux, aranci, verdi e ori che si intrecciano in infinite giravolte avvolgendosi con gli stucchi; al centro, grande, un atrio recintato da colonne in pietra.

Nell’aria, oltre il colore dei riflessi del tetto in vetro, il mormorio di alcuni visitatori, l’odore del legno e il suono armonioso di un flauto.

Dopo essere stati a pranzo torniamo da Hussein. Da qui seduti si vede, una decina di metri più in basso, la piazza centrale della Bascarsija, il quartiere turco.

A dividerci una discesa ripida, fatta di sampietrini, la fermata del vecchio tram numero 3 e la via Baseskije. Dopo la piazza, a perdita d’occhio, tetti arancio, colonne di fumo, minareti e monti.

Da qui non si vedono i vicoli interni e si perde un po’ l’impatto arabo che questa parte di città ha, ma dall’alto se ne riescono a percepire meglio i ritmi che la dominano.

Quello dinamico, quasi forsennato, dei passi, e quello lungo e lento delle luci e dei colori. Tra le strade, sotto i tetti, velocissimo, da appena sopra i tetti del centro, quindi anche per tutto il resto della città che sui monti si sviluppa, quasi immobile.

Due mondi resi, almeno alla vista, una cosa sola dal volo morbido ma incessante degli uccelli. Tutto perfetto, esattamente come un corpo, e i due ritmi sembrano proprio quello rapido del cuore e quello lento dei respiri. Un tumulto controllato.

A chi sa ascoltare, la città, paziente, rimanda indietro secoli di suoni. Qui in alto regna la quiete. Qui in alto non si conosce la fretta. Qui in alto si sta, e si aspetta.

Sarajevo

Arriva il nostro tea alla menta marocchina mentre dietro di noi un fabbro taglia e batte il ferro con precisissima alternanza di colpi.

Ogni gesto è un gesto esatto, non casuale, di chi tutti i giorni lavora per perfezionarlo. Lo stesso gesto esatto che ho visto fare ad una signora, nel suo caffè, nel servirci due tazze di bosanka kafa e ad un uomo, nella moschea di Gazi Husrev-beg, nel farsi scorrere tra le dita il rosario con il quale stava pregando.

Gesti comuni, ripetuti quasi ossessivamente, tutti i giorni, arrivati a raggiungere una perfezione quasi letteraria.
Magari in questo sta il segreto: dedicarsi ad un qualcosa, qualsiasi cosa, con costanza e amore, concentrati esclusivamente sul renderlo talmente perfetto da trasformarlo in magia.

Un colpo di martello non sarebbe più solo battere; scrivere non sarebbe più solo mettere in fila parole; fare una carezza non sarebbe più solo toccare un volto.

Ci perdiamo dietro mille cose, milioni di pensieri, per lo più inutili, e magari l’illuminazione sta nella realizzazione perfetta di un gesto semplice; nella magia del renderlo unico.

Mi perdo tra le righe, Federica legge, Hussein, per scegliere i tea si sposta con le mani i capelli dietro le orecchie, due donne con il velo salgono la salita che ci separa dalla Bascarsija, dopo la via Baseskije e la fermata del vecchio tram numero 3; Sarajevo continua a battere e respirare, con costanza ossessiva, gli uccelli volano, dall’alto al basso, dal basso all’alto. Gesto esatto.

Quando si avvicina il tramonto fasci di luce trasversale si infilano tra i fumi delle cucine, l’arancio dei tetti, il rame e i bronzi degli innumerevoli oggetti di artigianato esposti e l’aria, densa, piena, si fa del colore dell’oro.

Gli uomini e le donne delle montagne non hanno nulla di morbido. Non gli occhi, non i tratti, non il tocco delle mani, non la voce. Di certo, questo si, di un calore particolare hanno l’anima. Ardono.

Ci sono cose che ci portiamo indietro, che ci salvano, e indietro mi porto senz’altro, oltre lo splendore della città, sospesa tra passato e presente, tra occidente e oriente, anche l’accoglienza di Nihad, bosniaco romano; il sorriso travolgente di KC, turco; e i meravigliosi occhi vasti e profondi come il mare di Hussein da Sarajevo.

Sono le cinque del mattino, noi camminiamo sulla Ulica Mariala Tita verso la stazione del bus, sulla fiamma eterna che ricorda i caduti nella guerra contro i nazisti, ragazzi di rientro dal sabato sera si scaldano le mani; le moschee , nel frattempo, cantano le prime preghiere del giorno.

Da molto non mi capitava di andar via da un posto con il magone, con la malinconia del salutarsi. Sarà la spinta che dovrà riportarmi ad incontrarla, magari in inverno, meravigliosa e intima com’è, avvolta dalla neve.
Albeggia, il sole si affaccia dai monti che abbracciano la città, tutto si colora di caldi colori pastello, appena sopra di noi, esattamente in mezzo tra i due mondi, come collante divino gli uccelli volano, il nostro bus corre via, il mio cuore, per il momento, no.

“Faceva un gesto lungo con la mano, per esprimere il suo compiacimento, ed era quello il segnale che noi aspettavamo per farci coraggio e chiedergli di dirci un’altra volta della cotogna venuta da Istanbul, quella sua storia d’amore e di morte, che si giocò tra Bosforo e Danubio, quando ebbe fine al centro dei Balcani una cosa che noi chiamammo guerra, e invece fu, lo posso garantire io che l’ho vista molto da vicino, nient’altro che un imbroglio vergognoso.”

Vidimo se uskoro, Sarajevo!

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