È strano pensare a quanta vita ho perso sotto forma di tempo a star seduto sugli aerei fissando il sedile davanti e quante vite poi, invece, ogni ora passata in giro per il mondo mi abbia regalato. Infinite, davvero. Ho vissuto almeno cento vite.

Comunque andare a Rio de Janeiro è un’emozione pazzesca. Spaziale. È lontana, ma lontana davvero. Alla grandezza del mondo, quella fisica, proprio non riesco ad abituarmi. Lo giro da anni in lungo e in largo con qualche ora di volo, eppure niente.
Il salto dell’emisfero, nonostante ne abbia fatto ormai più di qualcuno, continua a farmi sempre lo stesso effetto.
Hanno altre stagioni, guardano verso un altro cielo… stanno di sotto! In quella parte del pianeta che da bambino, guardando al mondo in scala, mi faceva chiedere come fosse possibile che gli uomini restassero appiccicati a terra senza precipitare o  che comunque, una volta incollate le scarpe al suolo, non avessero problemi di sangue alla testa dato che a me per averli bastava stare qualche minuto penzoloni al contrario sul letto.
Volo comodo, arrivo in serata, qualche problema per prelevare i soldi in aeroporto e poi di gran corsa all’ostello. Rio, vista da Copacabana di notte, è ruffiana e fascinosa.
La sabbia fine e chiara, i tumulti e gli scrosci delle onde dell’oceano, le luci dei fari che illuminano con forza quello che hai davanti e lasciano invece alle luci lievi delle favelas illuminare il dietro che quindi mostra, quasi con timidezza, profili e misteri. Il Pao de Azucar, l’Avenida Atlantica, Copacabana. Già son più che sufficienti i nomi a far effetto, ma esserci… WOW!
Nella strada per rientrare troviamo, proprio di fianco al nostro ostello, una festa, ma Federica è stanca e anche un po’ spaventata, quindi decidiamo di salire.
Ora, qui sul balcone che da sul patio del giardino e con di fronte lo skyline di Botafogo, io scrivo e loro, tra percussioni, chitarre e voci, mi rallegrano.
OYE QUE COISA MAIS LINDA!
È strano il fuso, sono quasi le sette di mattina e io sono già in piedi da un po’.
Il balcone è lo stesso di ieri, ma tra me e i palazzi c’è una collina, verde, che ieri notte non si vedeva. Fa fresco ed è nuvolo, ma la collina è un parco naturale, quindi oltre al rumore del motore del frigo della signora di sotto, solo il canto degli uccelli.
Bom dia RIO.
Passeggiando per le vie scorgo per la prima volta il Cristo sul Corcovado, e davvero si ha la sensazione che tutto guardi.
E posto più giusto non potrebbe avere perché dove, se non a Rio de Janeiro? Porta in se tutte le contraddizioni della nostra società e quelle che sono poi della vita in generale. I concetti stessi di bene e male, qui, non sembrano divisi, ma parte della stessa identica cosa. È la città più moderna del mondo.
Le spiagge, in verità, che sono i posti più turistici, sono confinate da grandi passeggiate con piste ciclabili, una larga e lunga strada e tutto, poi, protetto da altissimi palazzi. Un muro di palazzi. E l’impressione, almeno la mia, è che non stiano li solo per una scelta urbanistica finalizzata all’ammodernamento della zona o al migliorare la vita dei cittadini, ma per coprire. Enormi casermoni in cemento piazzati li per nascondere a chi ha la possibilità di vivere da quest’altra parte quello che c’è dietro. E dietro c’è la favela.
E questo è la nostra società oggi, e questo sono le nostre città, e questo siamo noi. Credo il mondo, e le città, vadano sempre più verso Rio; un centro luccicante, accecante, e una periferia, o una favela se fa più effetto, sempre più povera, degradata e abbandonata. I ricchi si vergognano dei poveri, ne sono infastiditi, e quindi trasformano le città per cercare di nasconderli, perché se non li vedono non esistono; e noi uguale, ci trasformiamo nell’intimo per cercare di piacere, mettendoci in mostra anche correndo il rischio di superare il limite di quello che è decente, umiliante, e poi chissenefrega se a furia di nascondere quel che realmente siamo, quello finisce col non esistere più.
Ma non si viaggia solo per capire, si viaggia anche per apprezzare.
Quindi, per ora, via le contraddizioni e spazio a sole, oceano, palme e Pão de Açúcar.
La cosa più bella di Rio è, senza dubbio, la forza. Quella della natura sopra ogni cosa.
Rio de Janeiro
Credits: Luca Brocchi
 Abbiamo scelto di scoprire Rio passeggiando, senza farci troppo condizionare dalla paura che mette il venire in una città da sempre descritta come una delle più violente del mondo, e proprio in una traversa dietro la praia de Ipanema, vicino al locale dove Tom Jobin e Vinicius De Moraes hanno visto passare, rimanendone folgorati, la ormai famosissima Garota de Ipanema, troviamo un mercatino di artigianato che somiglia moltissimo a quello di San Thelmo a Buenos Aires.
È da quando sono arrivato che cerco in questa città il ritmo lento e soave della Bossa Nova senza trovarlo, e finalmente qui un pochino ce n’è.
Sassofoni, fisarmoniche e quadri. AAAHH! Un po’ di tranquillità. Ma per non esagerare con la calma, tornati a Ipanema ci ficchiamo in un caffè talmente chiassoso da riuscire a nascondermi addirittura i pensieri. Ora un gruppo di signori mi si è anche messo a suonare i tamburelli davanti. Allegri èh, ma che casino. Fortuna, come al solito, che a pochi passi c’è l’Oceano.
Oggi ci lanciamo in visita. Mi fa sempre ridere quando mi vesto da turista.
Comunque vabbè: il centro di Rio, l’Escadaria Selaròn, il Maracanà, lo stadio del Vasco da Gama (tra l’altro meraviglioso! È il club dei commercianti portoghesi e il primo a inserire i neri nella rosa della squadra. Prima di loro il calcio era cosa esclusivamente per bianchi. Dentro è incredibile, ma la cosa più affascinante è sulle mura esterne: ci hanno impresso, in nero, tutte le orme delle mani dei tifosi soci che ne hanno contribuito alla costruzione. Se non ci fossero stati questi, Pelè non avrebbe giocato al Calcio. FANTASTICI), ma l’eccitazione più forte è arrivata per la visita al campetto del São Cristóvão.
Non so come siete cresciuti voi, io con il calcio. E quelli della mia generazione che sono cresciuti a calcio giocatore più forte di lui non lo hanno potuto vedere.
Oggi ne gioca un altro, fortissimo, ma quello che ha cominciato qui è il Ronaldo QUELLO VERO. Ha cominciato di fianco in verità, dando 4 a 1 con tre gol e un assist al Flamengo nella finale del campionato di futsal. Predestinato. Lo chiamavano O DADADO, e in Brasile i soprannomi che prendi nei campetti te li porti dietro tutta la vita, almeno che tu non sia talmente forte da diventare O FENOMENO.
Niente da aggiungere, solo emozione.
Rio de Janeiro
Credits: Luca Brocchi
I risvegli fino ad ora li avevo passati sul balconcino sopra il patio a guardare Botafogo, ma oggi sono sceso e, bene come mai lo avevo visto fino ad ora, il Cristo! E allora oggi lo si va a vedere da vicino.
Arrivati al trenino che sale il Corcovado c’è da aspettare e quindi ne approfitto per ficcarmi in una chiesa… è strano il senso di sicurezza che nell’intimo suscitano le chiese. Ogni volta, soprattutto nelle zone che almeno all’apparenza trasmettono poca sicurezza, entrare in una chiesa mi ridà aria.
È come se fossero un porto franco, una casa anche a migliaia di Km da casa.
Dev’essere questa la radice culturale che accompagna una persona durante la crescita, e credo che tutti noi italiani, anche chi non crede e non pratica, siamo nel profondo cristiani cattolici. Se non per fede, appunto, per cultura. E delle chiese più di tutto adoro il silenzio, soprattutto quando c’è chiasso fuori, soprattutto quando c’è chiasso dentro di me. Entrare è sempre come saltare dalla cassa di un tamburo che qualcuno sta percuotendo a una culla d’ovatta. Puff. Quiete.
E adoro, se sento il bisogno di pace, entrare e con l’acqua santa farmi il segno della croce; e non perché stia a significare onorare una divinità, ma perché me lo fa mia madre, ed è bello il gesto in se, e mi piacciono le tradizioni, e mi da senso di vicinanza con quello che sono le mie origini, di unione. Mi da aria, appunto. Spegne la mente e mi da respiro.
Questo è una chiesa: quiete, pace, unione e respiro. Almeno per me.
Appena fuori si torna alla più normale delle situazioni da turista in visita: tutti seduti come imbecilli in una piazza di una zona in cui non c’è nulla, se non la strada che qui porta, ad aspettare il treno che sale al Cristo. Niente riesce a farmi sentire stupido come il visitare le attrazioni turistiche… Nel metabolizzare l’idea che sono meraviglie e VANNO VISITATE devo migliorare.
Saliamo, visitiamo, scendiamo, e come al solito finisce che poi ne rimango deluso. È più bello da sotto che da sopra. O meglio, non serve andare sopra per capire quanto è bello. Da sopra è bello il panorama, ma il Cristo da li  è solo una statua, mentre da sotto è un’icona. Protezione. Un abbraccio. Comunque, a parte tutto, faccio proprio una gran vita.
Rio de Janeiro
Credits: Luca Brocchi
– Promemoria: Mai bere capirinha a Copacabana alle tre di pomeriggio.
P.S. Il bagno nell’oceano non basta per riprendersi. –
Io non l’ho mai vista cosi tanta gente in una spiaggia.
Oddio, c’è più di qualcosa che non avevo mai visto prima di venire qui, ma sta spiaggia.. bah! E la densità è impressionante, non il numero in se, perché può essere normale che una spiaggia lunga quattro Km e larga qualche centinaio di metri contenga più persone delle spiagge che uno è abituato a frequentare, meno normale è che in una spiaggia cosi enorme si fatichi a trovare lo spazio dove poggiare i teli.
Non credo si possa immaginare sinceramente, come non credo che chi non è stato a Rio sappia completamente cosa vuol dire vivere una spiaggia. Noi crediamo di viverle, ma qui è un altro mondo, totalmente.
È stata una giornata densa, anche faticosa, ma è questo il bello del pieno: ti toglie energie ma ti riempie di gioia.
Il tempo passa, l’Avenida Atlantica si riempie e “A Praia” si cambia i vestiti.
Dietro il Sole, arancio, che ti esce a fasci dalle spalle diviso dai profili di monti che sembrano fatti di zucchero filato, per poi colorare il cielo di rosa e di viola.
Davanti l’Oceano, che con forza, a differenza dell’impressione che può dare l’andare e venire delle onde, sta.
Intorno, oltre la magia, anzi come parte della magia, dei ragazzi giocano a FootVolley mentre due bambini corrono, avanti e indietro con le onde, inseguendo questo meraviglioso Oceano che non si muove.
Intanto, dall’alto, come sempre il Cristo tutto guarda.
Poca cosa i tramonti di Copacabana.
Si fa scuro, e giuro, quando scurisce, non ci si riesce a star qui senza tenere la mente sui pericoli con i quali ci riempiono la testa ogni volta che si parla di Rio… è chiaro che il mio non è che uno sguardo superficiale, ma i ragazzi della favela frequentano abitualmente le spiagge e io problemi non ne ho mai avuti.
Quando mi è stato raccontato di chi ha avuto problemi, sinceramente, non sono riuscito a provarne dispiacere, e non perché sostengo chi ruba, ma perché sostengo la decenza e il rispetto.
Quello che a noi “ricchi” sembra continuare a sfuggire è che il nostro benessere dipende direttamente dalla povertà degli altri, e siamo cosi abituati all’idea che sia un nostro diritto, quanto un nostro merito la ricchezza conseguita, da non preoccuparci più di quanto possa essere provocante l’ostentazione.
Per farla semplice, i miei mi hanno sempre detto che si mangia quando si possono far mangiare anche gli altri, sennò si aspetta. Ora, se io non mangio da giorni e tu, grasso  come un maiale, mi ti metti davanti mentre ti ingozzi con più roba di quella che ti servirebbe tanto da finire col buttarla, io potrei sentirmi umiliato e girarmi, desiderare il tuo cibo e guardarti invidioso oppure innervosirmi e venirtelo a togliere.
Vale lo stesso con l’ostentazione della ricchezza tramite oggetti. Chi guarda si può girare, può invidiarli o, sentendosi provocato, può decidere di portarceli via. Giusto? Magari no, ma questo è.
Passiamo gli ultimi giorni a vagare, a guardare, a capire, ma soprattutto a sentire. Bisogna dedicarsi alla spiaggia. È una vera e propria necessità. A Rio BISOGNA dedicarsi alla spiaggia. Quindi alla spiaggia ci dedichiamo.
Ora lampa e piove forte, le nuvole coprono la vetta del Pan di Zucchero, il barista mi ha sbagliato la capirinha e i ragazzi su Copacabana continuano a giocare a footvolley. Non si fermano neanche quando piove, dev’essere per questo che poi la palla non gli cade mai.
Sentivo ieri che nel dizionario brasiliano ci sono più di cinquanta modi per chiamare la palla, quasi tutti sono nomi di donna. Ci fanno l’amore.
Torniamo in camera. Mi addormento. Pioveva quando mi sono addormentato e piove ora che mi sono svegliato. È stata proprio una bella notte, e io ho da sempre una passione particolare per la pioggia. Il fatto che duri ancora è una buona occasione per provare a riordinare un po le idee. Su tutto, come dall’inizio, ancora la forza.
Qui non c’è un posto in cui ti senti completamente “al sicuro”, almeno nel modo in cui intendiamo noi. Rio è viva.  E le cose vive ti tengono allerta. Non hai mai l’impressione che si svegli perché mai sembra che si addormenti. È in continuo movimento, in continuo mutamento, anche emotivo.
Quello che c’era quando sei andato a dormire non è detto ci sia quando ti sveglierai, perché magari qualcun altro lo vuole e quel qualcun altro sembra anche avere la forza di andarselo a prendere. È l’opposto di come noi siamo abituati a vivere: quasi addormentati su quel che abbiamo e su quel che non abbiamo. Ecco, di nuovo, qui sembra non dormire nessuno.
A questo non molto da aggiungere in verità, se non molto può essere considerato il ritmo del sangue, lento e soave, poi rapido e incessante. Rio è un cuore; un cuore di un adolescente in pieno tumulto emozionale. E la distanza che ci separa da Lei è la stessa che separa un vecchio da un giovane. Mai nessun anziano potrà giustificare i ritmi ai quali i giovani vivono. È natura. Ma che nostalgia prova nel guardarli. Saranno confusi, instabili, incoerenti, spesso sbagliati e magari anche violenti, ma quanta magia hanno dentro. Meraviglia!
Ecco, appunto, proprio questo:  A Cidade Maravilhosa.

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